L’OPERATORE CHE NON CONTRASTA UN INTERVENTO INUTILE AGEVOLA L’ACCANIMENTO TERAPEUTICO?

Il Caso
Dopo la diagnosi di neoplasia polmonare con sospetta invasione della vena cava superiore, Giovanna, una signora di 62 anni, viene sottoposta a tre cicli di chemioterapia e a un successivo intervento di pneumectomia, quindi ad ulteriori trattamenti radioterapici e chemioterapici, ai quali seguono alcuni mesi di relativo benessere. A seguito di una progressione di malattia con presenza di focolai a livello scheletrico, versamento pleurico e metastasi a livello cortico-sottocorticale frontale, viene segnalata al servizio di cure palliative, che prende in carico la paziente, somministrando una terapia con morfina e buscopan per il controllo della sintomatologia dolorosa. La paziente che è consapevole della malattia e della prognosi, manifesta la sua contrarietà ad un talcaggio pleurico ritenuto dagli oncologi utile per migliorare la funzione respiratoria. L’intervento di talcaggio viene comunque messo in atto, risultando assai doloroso per la paziente, le cui condizioni precipitano dopo le dimissioni dall’ospedale. Dal servizio di cure palliative viene impostata una sedazione, richiesta dalla paziente stessa, che decede nella giornata.

Il quesito
E’ stato etico, da parte del servizio di cure palliative, non chiedere agli oncologi la sospensione del talcaggio che non avrebbe, comunque, aumentato la quantità di vita della paziente e soprattutto, non rispettare l’autonomia della malata?

Il parere
Il caso riguarda una paziente descritta come consapevole della malattia e della prognosi e, quindi, in grado di assumere decisioni sui trattamenti, alla quale in situazione di terminalità viene praticato un doloroso intervento di talcaggio, da lei non voluto, dietro indicazione degli oncologi, nonostante la presa in carico da parte del servizio di cure palliative. Va precisato che qualunque trattamento praticato ad un malato in condizione terminale è eticamente giustificato, in primo luogo, se è posto in essere con il consenso del paziente, al quale siano state date riguardo al trattamento informazioni sufficienti a consentire una consapevole manifestazione di volontà; in secondo luogo, se da esso si può fondatamente attendere un beneficio per il malato in termini sia di quantità, sia di qualità di vita. Requisito, questo, in assenza del quale si deve ritenere che il trattamento dia luogo ad accanimento terapeutico. Da quanto precede deriva che un trattamento non destinato ad aumentare la quantità di vita e prevedibilmente doloroso per la paziente, oltre che da lei non voluto, non ha soddisfatto requisiti di eticità. Dalla presentazione del caso non emerge con chiarezza se nell’ultima fase di malattia la paziente abbia intrattenuto rapporti solo con l’équipe di cure palliative, a propria volta in contatto con gli oncologi, oppure se sia rimasta anche in contatto con gli oncologi, ricevendo direttamente da questi ultimi l’indicazione del talcaggio. Nel primo caso l’equipe di cure palliative avrebbe dovuto contrastare l’iniziativa interventistica degli oncologi con argomenti di inappropriatezza terapeutica e, in ogni caso, non fare propria la proposta di intervento. Nel secondo caso, avrebbe dovuto assumere un ruolo più attivo nell’informare la paziente dei costi, in termini di sofferenza, a fronte dei benefici attesi dell’intervento e delle possibili alternative, così da rafforzare la determinazione della paziente nel rifiuto, pur inizialmente formulato,del talcaggio.