IL CONSENSO DEL PAZIENTE BASTA A GIUSTIFICARE L’ATTUAZIONE DI UN TRATTAMENTO?

Il caso
Il malato di 58 anni, cosciente e consapevole del proprio stato, affetto da un tumore polmonare, con carcinosi pleurica, metastatizzato. Dal momento della diagnosi – avvenuta 15 mesi prima della presa in carico da parte del servizio di CP – il malato è stato sottoposto ad un intervento di “pleurodesi” chimica (immobilizzazione della pleura previa introduzione di agente chimico – talco più frequentemente – nel cavo pleurico) e trattamento con chemioterapia (non si conosce il chemioterapico di prima scelta). Dopo ulteriori interventi di svuotamento del cavo pleurico, per l’aggravarsi delle condizioni, viene proposto un trattamento chemioterapico di III linea (farmaci di ultima scelta dopo tentativi falliti con chemio di I e II linea) con Taxotere, accettato dal paziente in “piena autonomia”. E’ durante questo trattamento che il paziente viene preso in carico dal servizio e, al termine del ciclo con Taxotere, avviene il decesso.

I quesiti
E’ etico sostenere una scelta terapeutica, potenzialmente nociva e/o debilitante, non condivisa tra equipe di CP e reparto di oncologia, nel rispetto della decisione presa dal paziente precedentemente all’attivazione del servizio di CP. Non è forse più corretto intervenire influenzando la decisione del paziente proponendo percorsi terapeutici alternativi?

Il parere
Non è sempre facile interpretare correttamente la descrizione, scritta, di casi clinici. L’assenza di un interlocutore, al quale chiedere chiarimenti e particolari necessari a comprendere meglio il caso, risulta spesso un fattore a scapito di un buon giudizio. Come nel caso in questione dove “sembra” di capire che il contrasto di opinioni sugli interventi effettuati, in atto o da effettuare proposti malato da parte degli oncologi, dipenda da una diversa valutazione sulla appropriatezza/efficacia di questi trattamenti da parte della equipe di CP. In questo caso se, come si intuisce, il conflitto non è tra la volontà del paziente – correttamente informato – e le decisioni dei curanti, il parere che si può formulare è positivo. Il giudizio etico viene dato infatti tenendo conto della volontà, delle scelte consapevoli e autonome del malato, il quale (e questo pare certo) è persona istruita, consapevole e quindi nel pieno possesso delle sue capacità decisionali. Inoltre, a favore di questo parere, sta il fatto che non sembra sussistere la possibilità di “influenzare” le decisioni del paziente. A questo proposito, è comunque doveroso sottolineare che non deve essere questo lo scopo dei curanti (cioè “influenzare” una decisione del malato), quanto piuttosto quello di fornire al malato tutti gli strumenti di comprensione, perchè possa decidere in merito. Per quanto riguarda, nello specifico, il quesito circa l’ eticità del sostenere una scelta terapeutica, va ribadito che le scelte terapeutiche vanno certo condivise tra i curanti, ma soprattutto devono essere sempre rese comprensibili al malato perché lui possa accettarle o meno. I conflitti in termini di scelte terapeutiche all’interno delle equipe di cura possono nascere su due piani: quello della sostenibilità scientifica della terapia proponibile e quindi della sua efficacia in casi simili (studi controllati) e quello della futilità o (addirittura) dannosità, negli stessi casi. Molte volte i piani si sovrappongono o confondono. L’interventismo e l’adesione a principi vitalistici ispirano l’uso di interventi e terapie scientificamente sostenibili, ma clinicamente inefficaci o dannose (inutili o futili) in certi stadi delle malattie. In questo ambito non è sempre facile sostenere la giustezza di posizioni contrarie all’uso di quelle terapie, soprattutto se il paziente decide – autonomamente – di proseguire ad oltranza le terapie specifiche attive. Nel caso della più evidente futilità/inutilità di determinati interventi (come possono esserlo in alcuni casi trasfusioni, antibioticoterapie, interventi chirurgici, sostentamenti vitali con apparecchiature artificiali, respiratori automatici ecc.), soprattutto se proposti, ma rifiutati dal malato, permane il dovere di non applicare o la possibilità di sospendere i suddetti trattamenti.