Il caso
Il parere è chiesto da una infermiera appartenente ad una associazione di volontariato che si occupa di assistenza a malati terminali ricoverati in hospice e riguarda una donna di 41 anni, già affetta sin dal 2005 da carcinoma adenoido-cistico ad estensione endocranica. Dopo vari interventi chirurgici e radioterapia, nel luglio 2008 viene eseguita una RMN da cui si evince una estensione della malattia fino all’invasione del seno cavernoso controlaterale che induce i medici dell’istituto neurologico ove la paziente era ricoverata a dimetterla non essendo utili altri interventi di citoriduzione. La presa in carico nell’hospice avviene nell’ottobre 2008, con paziente ancora vigile e collaborante a tratti, seguita discontinuamente dal marito, qualificato nella richiesta di parere “unico tutore legale”, che si oppone al posizionamento di un catetere venoso centrale “in quanto considerato eccessivamente invasivo”. Da metà dicembre 2008 la donna manifesta un decadimento dell’umore, “con periodi di depressione e assenza, alternati a momenti di lucidità e desiderio di entrare in relazione con il personale” che l’assiste. Non viene accolta dal marito la proposta dell’équipe di riprendere la moglie a casa, formulata nel febbraio 2009 su “richiesta sempre più forte espressa dalla paziente”; che, preso atto del distacco delle “uniche persone care che Le sono rimaste” (coniuge e figlio minorenne), comincia ad opporsi a tutte le terapie, così esprimendo, come si evince da una consulenza psichiatrica effettuata, “il suo rifiuto più totale all’ospedalizzazione e al proseguimento di ogni tipo di cura, sia endovenosa che orale”. Agli inizi di marzo, in seguito ad uno scompenso cardiaco, la paziente viene trasferita per un consulto in un reparto ospedaliero di rianimazione ove viene posizionato “un sondino naso gastrico e catetere venoso”; rientrata in hospice Le viene somministrata un’alimentazione liquida attraverso il sondino “per combattere la spasticità da disidratazione”. La paziente “è ormai pressoché saporosa, ma manifesta intolleranza al sondino tentando di rimuoverselo ed esprime (non verbalmente) la presenza di algie”; decede il 27 marzo 2009. I problemi emersi nell’assistenza: Nella richiesta di parere vengono evidenziate, sotto la voce “problemi”, le seguenti circostanze : a) “La non possibilità da parte della paziente di decidere sul suo processo di cura, in quanto sovrastata dalla figura del marito che, apparentemente, ha maggiormente esercitato il suo ruolo per assicurarsi che venisse fatto ciò che lui riteneva più opportuno per le esigenze proprie e non della moglie”; b) “La gestione poco attenta delle esigenze della paziente in merito alla sua volontà, al punto di posizionare un dispositivo invasivo e debilitante nel momento di maggiore sofferenza (sng “. c) “Gestione poco efficace del dolore e capacità ridotte di accompagnamento alla morte da parte del personale, per la difficoltà del caso“.
Il quesito
Era possibile definire precedentemente con la paziente il processo di cura e attraverso la sua sola autorizzazione proseguirlo nonostante la presenza di un tutore e nonostante la sua progressiva incapacità di continuare ad esprimersi verbalmente?
Il parere
Certamente era non solo “possibile”, ma “doveroso” sul piano etico e giuridico dare ascolto alle richieste della paziente, definendo con l’interessata “il processo di cura” da seguire sino all’exitus. Infatti, anche in presenza di un “tutore” nominato dall’Autorità Giudiziaria, occorre sempre perseguire nell’assistenza il migliore interesse della paziente, come rappresentato dall’interessata, che, nella fattispecie, era quello di non soffrire inutilmente in una situazione ormai definita e pregiudicata dall’aggressività della malattia. Il termine “tutore legale”, peraltro, sembra essere stato utilizzato nel caso di specie non propriamente perché, nella richiesta del parere, la paziente viene descritta ancora in grado di decidere sulle cure al momento dell’ingresso in hospice e anche successivamente. Tra gli “altri dati oggettivamente rilevanti” elencati nella richiesta di parere, infatti, vengono menzionate le seguenti circostanze : ”la paziente ha sempre cercato il contatto con il personale, rispondendo a tono alle domande, manifestando in forma piena e decisa il suo umore e i suoi bisogni”, “il corpo non le permetteva di esprimere ciò che la sua mente era perfettamente in grado di elaborare”, “spesso attraverso una stretta di mano o lo sgorgare di una lacrima, l’annuire con il viso o il girare la testa definiva chiaramente la situazione”. In questa situazione non sembra esservi spazio per la nomina di un “tutore legale”, apparendo possibile ancora una diretta relazione terapeutica con l’interessata, in grado di decidere consapevolmente, anche mediante chiare manifestazioni non verbali di volontà, quali cure corrispondevano al suo interesse di paziente vicina al trapasso.. L’avere trascurato le volontà dell’interessata, decidendo, nella sostanza, il processo di cura solo con il marito, rappresenta certamente una violazione dei principi etici su cui si fonda anche l’assistenza ai malati terminali. Questo atteggiamento non può essere giustificato dalla “grande attenzione a non provocare scontri con il coniuge” dell’ammalata perché questo comportamento, ispirato alla “medicina difensiva”, come giustamente sottolineato nella richiesta di parere, finisce con il negare alla paziente l’esercizio dei suoi insopprimibili diritti di non soffrire inutilmente e di essere accompagnata all’inevitabile exitus nel modo migliore.