RICOVERARE IN HOSPICE. QUANDO?

Il caso
Maria, una paziente di 79 anni, affetta da neoplasia polmonare con localizzazioni linfonodali mediastiniche, con necessità di supervisione nei semplici atti quotidiani, viene seguita al domicilio dall’équipe dell’Ospedalizzazione Domiciliare Cure Palliative composta da medico, infermiera, psicologa. Non è consapevole della malattia e della prognosi, sa solo di avere una malattia cronica, non guaribile. Desidera stare meglio e non ha alcuna capacità di essere autonoma per la forte componente ansioso depressiva.Vive in un alloggio idoneo, in condizioni economiche sufficiente, con figli non conviventi disposti solo a dare sostegno per una eventuale badante, rifiutata dal marito di 78 anni, convivente, e dalla stessa sig.ra Maria. I problemi assistenziali sono dovuti alla non collaborazione e scarsa partecipazione al piano terapeutico-assistenziale da parte della paziente, con comportamento di ostruzionismo verso qualsiasi cosa venisse proposta dall’equipe e dai familiari, manifestato con crisi d’ansia e di pianto. Le difficoltà nell’assistenza a domicilio hanno comportato l’esaurimento del care giver e conseguente necessità di ricoverare la paziente in struttura protetta, anche se contro il volere della paziente stessa.

Il quesito
E’ eticamente corretto ricoverare una paziente contro il suo volere, in presenza di un peggioramento clinico e di una famiglia non disponibile a richiedere aiuti assistenziali esterni (es. badante) tali da permettere la prosecuzione dell’Ospedalizzazione Domiciliare?

Il parere
In linea generale il ricovero in Hospice contro la volontà espressa da una paziente in grado di autodeterminarsi consapevolmente non è certamente un comportamento etico. Nel caso di specie, peraltro, vi sono fondati dubbi in relazione alla capacità della paziente di effettuare scelte consapevoli in merito alla gestione della malattia da cui è affetta. La sig.ra Maria, a differenza dei familiari, non conosce la reale natura della sua malattia e la relativa prognosi, circostanza questa – che incide negativamente sulla sua capacità di autodeterminazione – di cui i curanti avrebbero dovuto, peraltro, farsi carico all’inizio della loro relazione con la paziente, come prescritto anche dal codice deontologico dei medici. Inoltre manifesta il “bisogno di essere accudita come una bambina per fragilità psicologica e non per necessità fisiche” e non ha “capacità di essere autonoma per la forte componente ansioso depressiva”.In questa situazione, visto il concomitante peggioramento delle sue condizioni cliniche, l’impossibilità di seguirla adeguatamente a casa per la mancanza di un “care giver” efficiente e il rifiuto espresso rispetto all’ausilio di una badante, si può comprendere la decisione dell’èquipe. L’importante, in questa situazione, è verificare con i figli la possibilità di ottenere la nomina di un amministratore di sostegno che possa ristabilire, nell’interesse della sig.ra Maria, il necessario “dualismo” nella relazione di cura.