UN TRATTAMENTO FUTILE È SEMPRE INGIUSTIFICATO?

Il caso
Giulia, di 44 anni, con tre figli di 14,7,3 anni, affetta da leucemia da due anni e invano sottoposta a due trapianti di midollo, è in condizioni gravissime, ma continua il trattamento chemioterapico e trasfusionale seguita dal reparto di ematologia. Accetta l’inserimento a domicilio del servizio di cure palliative conosciuto durante il ricovero in ematologia, soltanto perché le permette di fare trasfusioni a casa, ma non interagisce con gli operatori e vuole rapportarsi solo con l’ematologo. Quest’ultimo propone al medico palliativista di continuare i trattamenti fino al trasferimento della paziente in una struttura protetta, come da lei richiesto in precedenza. La paziente infatti è informata riguardo alla malattia di cui ha personalmente gestito l’iter terapeutico, ma non è consapevole della fase terminale in cui si trova. Però non pone domande e rifiuta il colloquio con la psicologa dell’equipe. Le condizioni si aggravano nei pochi giorni di intervento dell’équipe di cure palliative, ma quando gli operatori per le persistenti perdite ematiche propongono di interrompere le trasfusioni, Giulia si oppone e chiede di continuarle per poter passare ancora un po’ di tempo con i suoi figli. Muore tre giorni dopo in ospedale dove viene ricoverata per gravi perdite emorragiche.

I quesiti
E’ giusto assecondare la richiesta della paziente, le cui condizioni cliniche sono decisamente compromesse e le aspettative di vita molto limitate, e del medico ematologo di proseguire il trattamento con trasfusioni di sangue e chemioterapia quando sia ritenuto futile dal personale palliativista?

Il parere
Quando il paziente sta morendo i trattamenti nati per prolungare la vita – tra cui rientrano chemioterapia e trasfusioni – finiscono per prolungarne il morire e appaiono quindi sproporzionati e non devono essere proposti e attuati. Si impone invece la priorità del benessere fisico e psicologico del malato e il rispetto della sua volontà. Nel caso in esame la paziente ha sempre gestito in modo autonomo la sua malattia ed è consapevole della sua gravità, se non dell’immediatezza della fine. Il fatto che rifiuti il colloquio con il medico palliativista e con la psicologa sembra rivelare il desiderio di non confrontarsi con altri operatori che considera estranei al suo percorso di malattia, ma al tempo stesso sottolinea la sua consapevolezza decisionale e la sua autonomia. Del resto, l’équipe di cure palliative ha avuto in carico la paziente per soli sei giorni ed era quindi quasi impossibile instaurare una relazione. Alla luce di queste considerazioni, se pure i trattamenti sono da considerarsi futili in sé, la priorità del benessere psicologico della paziente e il rispetto della sua volontà consentivano di continuare ad eseguirli. Avendo soltanto 44 anni e tre figli bambini, era lecito che la malata continuasse a desiderare qualche ora in più e l’interruzione delle cure sarebbe apparsa un rifiuto ingiustificato della sua volontà, che certamente non avrebbe contribuito alla qualità del suo vivere e del suo morire.