SPETTA ALL’INFERMIERE IMPEDIRE LA MESSA IN ATTO DI TRATTAMENTI INUTILI?

Il caso
Il caso riguarda una paziente 50enne, coniugata e madre di quattro figli maschi ormai adulti. La paziente, pur avendo svolto l’attività di insegnante, è ora pensionata. Il marito, imprenditore, ha seguito attivamente la paziente durante tutto il decorso della malattia, tranne che negli ultimi giorni di vita della paziente, periodo nel quale, a causa dell’intensa sofferenza emotiva causata dall’imminenza della perdita, ha dovuto farsi sostituire nell’assistenza da una delle nuore. Alla paziente era stata diagnosticata, 5 anni prima, una neoplasia della portio. Trattata chirurgicamente, si sono poi impostati cicli di chemio e radioterapia. Circa due mesi prima del decesso si è evidenziata una ripresa della malattia, con diffuse metastasi epatiche e polmonari. Al momento della presa in carico domiciliare (da parte del MMG e dell’IP che pone i quesiti); ha un punteggio 50 al Karnofsky; è portatrice di catetere venoso centrale, è in terapia infusionale (prescritta dal reparto al momento della dimissione) con 500 cc di sol. fisiologica + 500 cc di sol. glucosata 5% una volta die a giorni alterni; in terapia con sintrom. Il dolore è ben controllato con durogesic 175 mcg + oramorph 10 mg. ogni 4 ore. La paziente conosce la diagnosi ma non la prognosi Al momento della dimissione dal reparto ospedaliero, è stata comunicata al marito la prognosi prevista per la paziente: 20 giorni. Di tale informazione il marito non ha fatto partecipe né la paziente né i figli. Su forti pressioni del marito, viene in ogni caso programmata una visita di controllo dopo 10 giorni dalla dimissione. La paziente cessa di vivere, presso il proprio domicilio, nei tempi previsti dai medici del reparto ospedaliero.

I quesiti
1.Posso, in qualità di infermiere, rifiutarmi di praticare una terapia infusionale che non condivido, perché la paziente è comunque in grado, se vuole, di assumere liquidi e/o alimenti per os, in disaccordo con quanto mi viene richiesto dal curante? 2.E’ lecito proseguire nella terapia TAO, nonostante una prognosi infausta a così breve termine? E se no, posso in qualità di infermiere cercare di sospendere terapie palesemente inutili, in contrasto con quanto prescritto dai medici oncologi? 3.E’ eticamente corretto da parte dei medici ospedalieri, programmare una visita di controllo, fatta solo per esaudire la volontà del marito, dopo aver comunicato una prognosi di 20 giorni? 4.E’ lecito per un infermiere cercare di proteggere la paziente da consulenze e quindi viaggi inutili e dolorosi, nonostante il parere contrario del medico e del marito? 5.Nel caso specifico l’unico familiare a conoscenza della prognosi era il marito e non voleva comunicarla ai figli. E’ lecito comunicare la prognosi ai figli della signora, da parte mia?

Il parere
La situazione descritta ha tutte le caratteristiche di una purtroppo diffusa regolarità, riassumibile nello schema seguente: *paziente terminale informato solo parzialmente. La parte di informazione che manca, attiene però al livello primario della semantica esistenziale della paziente: Vivrò? E quanto vivrò? Negandole questa informazione, le si nega la possibilità di compiere scelte in conformità con le proprie convinzioni e con i propri valori ; * somministrazione di farmaci ed effettuazione di visite di controllo ad esclusivo scopo rassicurativo; * care-giver angosciato ed emotivamente fragile che, in modo totalizzante, prende (e pretende che vengano prese) le decisioni che ritiene giuste (Per chi? Paradossalmente, in quadri relazionali di questo tipo, la tutela dell’equilibrio psico-emotivo del familiare care-giver diventa prioritaria rispetto alla salvaguardia dei diritti del paziente. Di solito, esattamente come nel caso presentato, il care-giver però subisce un crollo psicologico nell’imminenza della fine vita del paziente, con il risultato di privare il paziente del necessario supporto affettivo); * decisioni “cliniche” lasciate esclusivamente alla discrezione del medico curante che spesso subisce le pressioni esercitate dai familiari; *disagio profondo degli operatori che non condividono tali scelte; Se partiamo dalla considerazione che in questo caso è stata violata una delle più elementari norme etiche, quella della corretta informazione, il parere sui quesiti 1, 2; 4 e 5 (apparendomi il quesito 3 del tutto pleonastico) per come sono formulati non può che essere no, non è eticamente lecito, poiché si tratterebbe semplicemente di sostituire una serie di decisioni arbitrarie con una serie di decisioni altrettanto arbitrarie (chi mai potrebbe escludere, p. es., che la paziente, una volta informata, decida comunque di farsi infondere terapie futili e di sottoporsi a visite di controllo clinicamente inutili, ma utili invece a rassicurare un familiare tanto spaventato? Abbiamo pure assistito qualche volta, poche in realtà, a casi in cui un paziente, consapevole ma stremato dall’ansia dei parenti, acconsentiva a trattamenti che avevano il solo scopo, protettivo, di alimentare l’irrealistica speranza dei familiari o di sedare i loro sensi di colpa), nella paternalistica convinzione di saper meglio degli altri, e più eticamente, interpretare Il bene della paziente. Una paziente peraltro competente, che potrebbe invece, se informata, decidere quale è la cosa migliore per sé stessa. Tra i quesiti posti ne manca quindi uno, centrale, che potrebbe essere il seguente: è lecito fornire alla paziente gli elementi e le informazioni che le consentirebbero di programmare, in piena e consapevole autonomia, il proprio futuro? La risposta a tale quesito è che l’unico operatore sanitario legalmente autorizzato a fornire informazioni di questo tipo è il medico (il quale è peraltro giuridicamente vincolato a fornirle a lei e a lei sola). Ogni altro operatore sanitario deve mantenere il più stretto riserbo. Nel caso preso in esame, il medico ha ritenuto di dover informare soltanto uno dei familiari, escludendo la paziente stessa dal circuito informativo. Di conseguenza, le cose che l’infermiere potrà fare e le iniziative che potrà prendere, avranno come obiettivo quello di riportare l’atteggiamento dell’operatore medico su un piano di maggior coerenza etica, una coerenza che deve prevedere la comunicazione corretta alla paziente. Una volta fatta questa comunicazione, si potrà impostare un percorso operativamente corretto, che potrebbe prevedere una presa in carico integrata della coppia coniugale, con chiara esplicitazione dei rispettivi bisogni (e, dal punto di vista psicologico, il bisogno del marito è certamente assai rilevante), dei rispettivi diritti e dei rispettivi limiti.