LA SCELTA INTERVENTISTA È SEMPRE LA PIÙ GIUSTIFICATA?

Il caso
Il caso riguarda una paziente di 93 anni, già in passato colpita da infarto e affetta, in un quadro di polipatologia, da un’ingravescente cardiopatia ischemico-ipertensiva. Sebbene competente e in condizioni psicologiche generalmente buone, la paziente non è, dal medico di famiglia, che pur l’assiste periodicamente a casa, messa a conoscenza della gravità delle sue condizioni, né, tantomeno, della possibilità di un loro improvviso precipitare a causa di un evento acuto. La paziente non è, di conseguenza, posta in grado di manifestare anticipatamente alcuna volontà circa la messa in atto di scelte assistenziali più o meno interventistiche nell’ipotesi di un aggravamento del suo quadro clinico. E’ così che, al manifestarsi di una sintomatologia che fa sospettare un infarto del miocardio (che per la paziente sarebbe stato un re-infarto), il medico di famiglia prende con molte titubanze, data la gravità della situazione, e senza poter contare sul parere del figlio della paziente, la decisione di far intervenire il servizio di emergenza (118), ponendo con ciò le premesse per l’avvio della paziente al ricovero ospedaliero. Il ricovero viene effettuato, dopo la conferma della diagnosi da parte del medico del servizio d’urgenza, sebbene durante la visita la paziente avesse espresso il desiderio di essere lasciata a casa.

I quesiti
1. In presenza di un paziente grande anziano affetto da polipatologia, il medico di continua assistenza avrebbe tenuto un comportamento eticamente corretto se avesse deciso di non fare intervenire il servizio di emergenza territoriale, prima che la paziente esclamasse: “lasciatemi a casa”, effettuando, comunque, una terapia idonea a controllare la sofferenza? 2. Il medico di emergenza territoriale avrebbe agito in modo eticamente corretto, se avesse rispettato la volontà della paziente di non essere ricoverata?

Il parere
Il caso pone in evidenza le difficoltà che sovente accompagnano la messa in atto di decisioni eticamente, oltre che clinicamente appropriate, relative a pazienti, per lo più in età avanzata, con patologie cardiologiche a prognosi estremamente infausta, in quadri di significativa polipatologia. Tali difficoltà appaiono correlate sia all’ incertezza sull’instaurarsi della condizione di terminalità; sia ad una perdurante, non sempre giustificata, attitudine interventistica; sia, soprattutto, alle resistenze che ancora ostacolano l’informazione del paziente, soprattutto se anziano, così come il suo coinvolgimento nelle scelte sulle cure e il rispetto della sua volontà. La mancata informazione sulla gravità delle sue condizioni e, soprattutto, sulla prevedibilità di un loro precipitare, a seguito, di un episodio acuto, quale l’infarto, poi verificatosi, ha privato la signora, in età avanzata ma competente, della possibilità di far conoscere anticipatamente i suoi desideri circa le modalità di cure di fine vita alle quali essere sottoposta, e, al tempo stesso, ha privato il medico della possibilità di trovare in tali volontà, manifestate prima del subentrare della situazione critica, un fondamentale riferimento nel momento di prendere la decisione riguardo all’attivazione del servizio, e dell’intervento di emergenza. Va detto, comunque, che, la situazione di emergenza non fa venir meno il dovere di subordinare la messa in atto di un intervento al consenso del paziente, se in grado di esprimerlo, e ciò indipendentemente dalla disponibilità di volontà anticipate. Queste sono, infatti, destinate a divenire operative solo nel momento in cui non è più possibile far riferimento alla volontà attuale, mentre, nel caso in cui una volontà attuale può essere manifestata, devono in questa trovare conferma. Nel caso in esame, quella dell’attivazione del servizio di emergenza territoriale non era, per il medico di famiglia, la scelta resa obbligata dall’assenza di direttive anticipate della paziente e dall’atteggiamento di affidamento del figlio di questa. Prima dell’attivazione, il medico avrebbe dovuto intensificare gli sforzi volti a raccogliere, intorno all’ipotesi di cure intensive da praticare in ospedale, la volontà della paziente che – come si legge nella presentazione del caso – dopo le prime cure era tornata in grado di comunicare e di riferire i suoi sintomi, e, in caso di volontà negativa, il medico avrebbe agito in modo eticamente corretto, astenendosi dall’attivazione nel rispetto della volontà della malata. Qualora, nonostante gli sforzi, non fosse stata raccolta alcuna volontà, l’opzione interventistica sarebbe stata eticamente giustificata in presenza di una ragionevole valutazione di non futilità dell’intervento del medico del 118. Resta, peraltro, fuori di ogni dubbio la scorrettezza, dal punto di vista etico, dell’operato del medico del servizio di emergenza, il quale, ricoverando la malata contro la volontà da questa espressa, ha tenuto un comportamento incompatibile con il rispetto dell’autonomia e solo falsamente giustificabile nella prospettiva della beneficenza.