E’ COSÌ DIFFICILE MORIRE A CASA PROPRIA?

Il caso
Il malato, signor Rossi, è un uomo di 55 anni, laureato, insegnante, sposato, con due figli maggiorenni, portatore di neoplasia polmonare dal 2006, associata a pregressa psicosi depressiva. Nonostante le cure la malattia è progredita, a livello polmonare, epatico e cerebrale. A seguito di episodi di vomito incoercibile il paziente viene ricoverato in una clinica dove il sintomo viene curato con farmaci antiedema cerebrale; rivalutato dallo psichiatra di riferimento viene trovato in discreto compenso psichico. Alla proposta di dimissioni, il paziente, consapevole della sua situazione clinica e della terminalità, chiede di tornare a casa. La moglie si oppone alla richiesta temendo possibili reazioni psicotiche del coniuge, già verificatesi in passato, e ne chiede il ricovero in hospice, ricovero in un primo tempo rifiutato, poi accettato dal paziente. In hospice però il paziente ripropone il desiderio di tornare a casa: l’équipe è d’accordo, ma la moglie ( di cui viene detto che riveste una grossa carica istituzionale ), nonostante i numerosi colloqui con il responsabile dell’équipe che tenta di convincerla proponendole l’assistenza domiciliare, si oppone senza possibilità di appello, anzi minacciando denuncia in caso di dimissioni. Il paziente diviene sempre più depresso e inquieto ed esprime la sua rabbia alla moglie e ai figli, che quindi lo lasciano solo interrompendo drasticamente le visite. Solo il suocero viene talvolta a vederlo, ma si ferma a guardarlo dalla soglia.

I quesiti
Sarebbe stato eticamente corretto dimettere comunque il paziente, nonostante la volontà della moglie e la certezza di essere denunciati? Sarebbe stato eticamente corretto trattenere il paziente in hospice contro la sua volontà? E in tal caso sarebbe stato opportuno sedarlo, come proposto dal suo psichiatra?

Il parere
Il caso non è raro né atipico. La centralità del malato nelle scelte terapeutiche infatti è più teorica che concreta e spesso, in caso di conflittualità tra la volontà del malato e quella dei parenti, sono questi ultimi ad essere privilegiati. Nel caso in esame la volontà del paziente è espressa con assoluta chiarezza: si tratta di un malato giovane, colto, consapevole della sua terminalità e per questo determinato a voler concludere la sua vita nella sua casa. Ma altrettanto determinata ad opporvisi appare la moglie descritta come “politicamente autorevole”, che minaccia di denunciare l’équipe in caso di dimissione del marito. Appare evidente che la cosa eticamente corretta da farsi sarebbe stata quella di rispettare la volontà del paziente, ma è anche doveroso chiedersi come l’équipe avrebbe potuto costringere la moglie ad accettare tale richiesta ed anche, qualora vi fossero riusciti, quale sarebbe stata la qualità di vita di un morente inserito a forza in un contesto ostile. Se l’équipe, come pare, ha tentato in ogni modo di convincere la moglie senza riuscirvi, l’unica soluzione concretamente praticabile era – come del resto avvenuto – quella di trattenere il paziente in hospice, tentando in ogni modo di instaurare con lui un colloquio più profondo, per far defluire la sua rabbia e accompagnarlo ad una fine meno angosciante, magari coinvolgendo lo psichiatra che lo aveva in cura. Quest’ultimo, infatti, conoscendo la storia pregressa di malattia psichica del paziente, avrebbe potuto – e dovuto – assumere una posizione importante tra équipe e famiglia alla ricerca di una soluzione meno traumatica e dolorosa per il malato. La sua proposta di sedarlo, invece, appare un tentativo piuttosto sbrigativo di chiudere il caso. Ma anche una possibile sedazione avrebbe dovuto essere preventivamente discussa con il malato, come ogni altro intervento. Resta da fare una notazione: nell’esposizione del caso non si parla dei due figli definiti però maggiorenni. Soltanto si dice che, insieme alla madre, cessano le visite e abbandonano il padre di fronte alla sua richiesta di tornare a casa e alla sua rabbia. Forse l’équipe avrebbe potuto tentare di interpellarli e di chiedere il loro aiuto, anche soltanto per capire quali dinamiche familiari pregresse (episodi psicotici cui si fa cenno, ad esempio) potessero aver creato un così pesante atteggiamento di rifiuto e di abbandono. Forse, invece, l’équipe ha fatto tutto quanto era possibile fare e l’insuccesso non deve essere per gli operatori fonte di sensi di colpa e di inadeguatezza. Si sono, banalmente, imbattuti in una delle tante famiglie in cui la circolazione di parole e di affetto è completamente assente. Ed è quasi impossibile sperare che possa nascere di fronte alla morte quel rispetto per l’altro e quel dialogo empatico che non si sono mai conosciuti prima.