QUANDO SI DIVENTA TERMINALI?

Il Caso
Giovanni è un paziente sessantacinquenne, affetto, da oltre due anni, da tumore destruente al volto, che lo ha reso non vedente e quasi del tutto non udente. In condizioni cliniche complessivamente discrete, e con una prognosi di sopravvivenza stimata intorno ai dodici, diciotto mesi, Giovanni, che è pienamente consapevole della sua condizione, versa in una situazione di grave stress e di sofferenza psicologica. Ha un atteggiamento scarsamente collaborativo nei riguardi delle terapie, peraltro di scarsa efficacia, che gli vengono praticate e rifiuta di essere sottoposto a trattamenti chirurgici, che non sarebbero comunque risolutivi. Chiuso in casa, quasi tutto il tempo al buio in una camera da letto, rifiuta di incontrare qualunque persona, compresa la figlia e le nipotine, eccezion fatta per la moglie, con la quale non ha però un rapporto sereno, e per il personale sanitario che lo assiste. A questo manifesta ripetutamente intenzioni suicidarie e rivolge la richiesta di essere sottoposto a sedazione terminale.

Il quesito
E’ possibile programmare una sedazione in un paziente con prognosi di 12 – 18 mesi, in condizioni cliniche discrete, senza dolori se non un grave stress psicologico?

Il parere
Il caso offre lo spunto per ritornare sulla questione, da sempre al centro dell’attenzione di chi riflette sulle e di chi opera nelle cure palliative, della natura della sedazione terminale, nonché delle condizioni e dei limiti, che ne fanno un trattamento eticamente proponibile e attuabile. Esso consente, però, di affrontare anche altre delicate questioni. Tra queste, la questione del peso da riconoscere alla sofferenza psicologica accanto e, talora, più che alla sofferenza strettamente fisica, nel modulare l’offerta e la richiesta di cura, la questione dell’efficacia e dei limiti dell’approccio assistenziale di tipo palliativo e, infine, la questione, sottaciuta ma intravedibile, nel caso proposto, dell’eutanasia e dei suoi rapporti con la sedazione terminale, in un contesto, come il nostro, nel quale rimane fermo, per gli operatori sanitari, il divieto (deontologico e giuridico) di aiutare a morire, compiendo un atto specificamente rivolto a quel fine, un malato inguaribile che ne faccia richiesta, reputando insostenibile la prosecuzione della sopravvivenza. Un tumore, come quello al volto, da cui è affetto Giovanni, non comporta solo dolore e gravi perdite funzionali, quali la compromissione della vista e dell’udito, ma comporta una grave alterazione dello schema corporeo, incidendo immediatamente e direttamente sull’immagine che ogni individuo ha di sé stesso e con la quale si propone alle altre persone con cui entra in relazione. Gli effetti distruttivi che un tumore che devasta il volto può produrre e che, nel caso specifico, sembra aver prodotto, sono di tipo psicologico, oltre e ancor più che di tipo fisico. Giovanni, versa in una situazione di profonda e globale sofferenza, che va ben oltre il dolore causato dalle lesioni tumorali. Una sofferenza – per la quale non esistono medicazioni efficaci – che lo porta a sottrarsi a pressoché ogni forma di contatto e di relazione e a ritrarsi da una vita che, con il suo comportamento, fa intendere di considerare insostenibile. In presenza di tale dolorosa condizione, la sedazione terminale sembra rappresentare per Giovanni l’unica strada per essere traghettato, in una condizione di sospensione della coscienza e, quindi, senza sofferenza, alla conclusione di un’esistenza, di cui non può chiedere ai sanitari l’immediata interruzione. Riguardo alla sedazione finalizzata alla riduzione della vigilanza, fino alla soppressione della coscienza, v’è ampia convergenza, nei documenti delle più importanti Società scientifiche (EACP, SICP ecc…), così come nella letteratura bioetica di diverso orientamento, nel ritenerla trattamento che il medico è eticamente legittimato, anzi è tenuto, a proporre e a praticare (sempre previo consenso del malato, se competente, o di chi lo rappresenta, se il malato versa in stato di incapacità), quando non v’è altra strada percorribile per sollevare il malato dalla sofferenza dovuta alla presenza di sintomi risultati refrattari a ogni altro trattamento. Nella sintomatologia dolorosa non diversamente trattabile e intollerabile per il malato, rientrano sintomi fisici di estrema gravità, quali, ad esempio, la nausea, il vomito, le emorragie, la difficoltà respiratoria, ma anche stati di sofferenza psichica dai quali il malato non possa essere sollevato con nessun altro diverso approccio di cura. Del “dolore totale” incontrollabile, spesso presente nelle fasi finali della vita, la sofferenza dovuta all’incapacità di autogestirsi, alla mortificazione per il proprio stato, all’angoscia per il distacco dalle persone care e da tutto ciò che si è costruito, può costituire la componente prevalente, se non addirittura esclusiva. E’ proprio questa la situazione in cui versa Giovanni, riguardo al quale, sia per le lesioni (inevitabilmente dolorose) prodotte dal tumore, sia per il grave distress psicologico/esistenziale suscettibile di incidere in maniera negativa sulla sopravvivenza, non si può, secondo l’opinione prevalsa all’interno del CEF, escludere la condizione di terminalità. Il CEF ha, pertanto, ritenuto che, nel caso specifico, il ricorso alla sedazione possa essere ritenuto eticamente giustificato, dal momento che non sono percorribili con prospettive di successo strade alternative, dal supporto psicologico (già attivato), alle terapie antidepressive, a forme di sedazione intermittente che potrebbero migliorare la modulazione del sonno, ma non sollevare il paziente dalla condizione di sofferenza a tutto campo in cui versa. D’altra parte, si intravede che, nella sedazione terminale, Giovanni, presentato come dotato di vasta, se pur autodidattica cultura e, quindi, presumibilmente ben informato, scorge un surrogato di un vero e proprio aiuto “eutanasico” a morire. Un aiuto che – sapendo di non poterlo ottenere – non chiede espressamente ai sanitari. Nel sottolineare la differenza tra sedazione terminale e eutanasia, in quanto pratiche non sovrapponibili e non assimilabili né nella modalità di attuazione, né nella finalità, il Comitato per l’etica di fine vita ritiene non approvabile sotto il profilo etico (oltre che censurabile sotto il profilo giuridico) il ricorso all’una, la sedazione terminale, per raggiungere lo scopo dell’altra, l’eutanasia. Al tempo stesso, però, ritiene doveroso rilevare come questo, non diversamente da molti altri casi, renda evidente che il ricorso a tutte le strategie disponibili nell’ambito delle cure palliative, se pur, in generale destinato a incidere positivamente sulla riduzione delle cause alla base delle scelte suicide, così come delle richieste eutanasiche, non è, tuttavia, in grado di fare dell’eutanasia uno pseudo-problema, di cui gli operatori sanitari, la società civile e il mondo della politica possano continuare a disinteressarsi, accampando l’illusoria e mistificante giustificazione che l’accresciuta possibilità di alleviare la sofferenza renda irrealistica, ancor prima che immeritevole di considerazione, l’ipotesi di un malato che, destinatario di un’appropriata assistenza palliativa, possa esprimere la volontà di morire e di essere aiutato a farlo.