L’interruzione di trattamento di sostegno vitale in ambito pediatrico

  1. Il caso

Grazie alla documentazione fornita dall’equipe dell’Hospice pediatrico, sono stati acquisiti elementi che il CEF ha ritenuto utili e adeguati ai fini della valutazione richiesta al Comitato sul caso in esame, di cui si presenta, di seguito, un sintetico inquadramento.

Il caso proposto riguarda A., un bambino di otto anni, ricoverato in un Hospice pediatrico da metà novembre 2021, affetto da sindrome neurodegenerativa con ipotonia e insufficienza respiratoria in mutazione del gene CLCN6 sul cromosoma 1 e  lieve emofilia A, da contestuale mutazione del gene F8 su cromosoma X, la cui diagnosi è stata effettuata, grazie all’ indagine genomica  (WES), eseguita nell’ ambito del programma “Malattie senza diagnosi” della fondazione Telethon solo una ventina di giorni prima del ricovero nell’Hospice pediatrico, durante la degenza del bambino nella terapia intensiva dell’ospedale che lo accoglieva.

Quella di A. è una storia clinica complessa, contrassegnata dal manifestarsi, fino dal primo anno di vita, di episodi patologici a carico, soprattutto, dell’apparato respiratorio (bronchiolite, broncopolmoniti, insufficienza respiratoria), e dall’instaurarsi di un ingravescente quadro di complicanze (con continui ricoveri ospedalieri) e di perdite funzionali che hanno, via via, interessato l’apparato cardiaco e gastrointestinale, oltre che respiratorio, e comportato, altresì, il progressivo scadimento delle condizioni inerenti la sfera cognitiva e relazionale.

Dopo un primo arresto cardiocircolatorio, provocato, nel 1917, da inalazione di bolo alimentare, l’aggravarsi dell’insufficienza respiratoria, in concomitanza con una sempre più importante compromissione motoria, ha richiesto il ricorso alla NIV (ventilazione non invasiva), divenuta necessaria per un sempre maggior numero di ore nella giornata.

È, tuttavia, nell’ottobre del 2021 che la condizione clinica di A. ha conosciuto un drastico peggioramento, dando luogo a uno scenario prognostico e terapeutico con elementi di discontinuità rispetto alle precedenti fasi di malattia.

Durante l’ennesimo ricovero ospedaliero per infezione respiratoria, infatti, il bambino ha avuto un nuovo arresto cardiaco dovuto a ostruzione da secrezioni, ed è stato rianimato per 6 minuti prima della ripresa di un ritmo spontaneo. Dopo tale episodio, è apparso indifferibile il confezionamento di una gastrostomia per il posizionamento della PEG e della tracheotomia, già in precedenza prospettate dai sanitari (dai curanti), ma rifiutate dai genitori, nella speranza della praticabilità di percorsi clinici in grado di garantire al bambino maggiori margini di autonomia. La totale assenza di autonomia respiratoria ha quindi reso necessario il ricorso alla ventilazione meccanica, che insieme all’idratazione e alla nutrizione artificiale, rappresenta il trattamento di sostegno vitale da cui è apparsa dipendere la sopravvivenza di A.

Trasferito in Hospice pediatrico, dopo le dimissioni dalla terapia intensiva ospedaliera, con l’intenzione di una nuova successiva collocazione, a fronte della non praticabilità del ritorno al domicilio, A. è apparso, fino dall’inizio del ricovero, in condizioni molto gravi, rimaste tali e confermatesi come irreversibili, negli oltre due mesi in cui si è già protratta la degenza.

Il quadro clinico in atto è, infatti, quello di un bambino tetraparetico, in uno stato di sopore, non contattabile, con dipendenza continuativa da ventilazione meccanica e da nutrizione artificiale, persistenza di discinesie e necessità di terapia antalgica e sedativa continuative.

A completamento della presentazione del caso, i proponenti hanno fornito indicazioni in merito alle altre figure coinvolte nella relazione di cura, vale a dire i genitori.  Di questi viene posto in risalto l’impegno costantemente profuso nell’assistere e sostenere il bambino nella sua dolorosa quotidianità, nella convinzione che le sue condizioni non gli precludessero la possibilità di una relazione cognitiva e affettiva. Viene altresì sottolineato come la speranza a lungo mantenuta della possibilità di un miglioramento, abbia alimentato, pur all’interno di un rapporto sempre dialogico e aperto al confronto, forti resistenze nei confronti  tanto della messa in atto di procedure, quali la Peg o la tracheostomia, da tempo prospettate come appropriate dai sanitari di riferimento, ma da loro considerate inidonee per l’incidenza sull’autonomia del bambino,  quanto, pur in presenza di un deciso aggravamento, dell’ipotesi di non avviare manovre rianimatorie o, una volta che fossero state  avviate, di  non proseguirle, in considerazione della loro massima invasività e inidoneità a migliorare la condizione del bambino.

  • L’evento critico (che ha suscitato il problema etico alla base della richiesta di parere sul caso clinico)

   Posto che l’equipe pediatrica dell’Hospice ha instaurato con i genitori di A. un rapporto costantemente improntato alla comunicazione, realizzando numerosi colloqui, in alcuni dei quali sono state coinvolte anche la pediatra di libera scelta e gli specialisti che hanno avuto in cura il bambino (anestesista – rianimatore, pneumologo, neurologo), i genitori, in un clima di fiducia,  hanno condiviso con i curanti non solo gli adeguamenti terapeutici intrapresi (in particolare quelli volti a incrementare la terapia sedo-analgesica), ma, in vista della pianificazione delle cure, anche la consapevolezza, a fronte della gravità e irreversibilità delle condizioni cliniche di A., dell’inappropriatezza sia di esami diagnostici, sia di manovre invasive in caso di nuovo evento acuto o di ulteriori terapie (eccetto quelle volte a evitare il discomfort) in caso di complicanze, sia la inappropriatezza di un eventuale trasferimento in ambiente ospedaliero.

Si è, tuttavia, manifestata una decisa divaricazione di posizioni tra l’équipe e i genitori in merito all’interruzione dei trattamenti di supporto vitale in atto e all’accompagnamento alla morte previo avvio di sedazione palliativa profonda continuativa.

     La  linea di azione in questione è, infatti, ritenuta, secondo il parere unanime dell’équipe (allargata), quella appropriata per il best interest del bambino, perché in grado di liberarlo dalla prigionia di una  sopravvivenza in una irreversibile condizione di stato vegetativo, consentita solo dalla prosecuzione di trattamenti di sostegno vitale di massima invasività, e, al tempo stesso, perché in grado di garantirgli che l’inevitabile conclusione della sua breve vita possa avvenire in un ambiente familiare, alla presenza dei genitori che se ne sono sempre presi cura, invece che in un ospedale o in una terapia intensiva.

     Quella linea è, invece, (decisamente) avversata dai genitori, i quali, se pur consapevoli dell’irreversibilità delle condizioni di A.  e del non lungo tratto di vita che gli resta, esprimono la convinzione che il bambino sia in uno stato di minima coscienza che gli permette di mantenere una relazione con loro e una dignità di vita.  Persuasi che la desistenza dalla messa in atto di “nuovi” interventi e l’accompagnamento potranno rappresentare la strada da percorrere nel caso di un altro evento acuto, essi considerano la sospensione dei trattamenti di supporto vitale una sorta di “accelerazione” impressa nello svolgersi “naturale” del tempo della vita e un’opzione verso la quale è impensabile che un genitore si possa orientare.

Fermi, al momento, nel sostenere questa posizione, i genitori appaiono, comunque, disponibili a tenere aperto il dialogo con i sanitari, senza smettere di preoccuparsi e di interrogarsi sulla sofferenza del loro bambino.

  • I Quesiti posti al Cef
  1. I proponenti chiedono al Cef di valutare  se la linea di azione individuata come appropriata dall’équipe curante allargata, ed espressamente prospettata  ai genitori del bambino in diversi colloqui, vale a dire l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la messa in atto della sedazione palliativa profonda, sia eticamente giustificata e meritevole di essere adottata secondo i principi della bioetica e del diritto applicati allo specifico contesto, e, per contro, se la prosecuzione dei trattamenti in atto possa o meno configurare una forma di accanimento terapeutico,  specificando anche richiesta riguardante le possibili strategie argomentative.
  • I proponenti chiedono, inoltre, al Cef, nel caso in cui la posizione dei curanti venga valutata  

come eticamente giustificata e funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, oltre alle strategie argomentative, quali siano gli approcci attenti ai vissuti psicologici e alla dimensione emotiva dei genitori che l’équipe può portare ulteriormente alla famiglia con l’intento di far emergere le radici delle divergenti valutazioni relative all’interesse del minore accertando se vi siano spazi per il loro superamento, evitando contrapposizioni non vantaggiose per il bambino.

  • Il parere del Cef

Primo quesito

“L’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la messa in atto della sedazione palliativa profonda, è eticamente giustificata e meritevole di essere adottata secondo i principi della bioetica e del diritto applicati allo specifico contesto, e, per contro, la prosecuzione dei trattamenti in atto può configurare una forma di accanimento terapeutico?”

    La valutazione  della linea d’azione individuata come appropriata dall’équipe curante allargata nel percorso di assistenza di A. e prospettata ai genitori come meritevole di essere attuata nel miglior interesse del loro bambino, richiede un preliminare riferimento ai criteri ai quali, secondo la riflessione bioetica  e, in linea con questa, secondo la regolazione deontologica e giuridica, devono essere improntate le decisioni sulle cure destinate a soggetti incapaci e, nel caso specifico, a un soggetto, come il protagonista del caso presentato, minore di età e in condizioni cliniche tali da non consentire di raccoglierne, in alcun modo, desideri e volontà.                                                                

           Il primo criterio da richiamare è quello che serve a far chiarezza sui ruoli dei diversi soggetti coinvolti, vale a dire, dei curanti, da una parte, e dei rappresentanti del minore, nel caso in esame dei genitori, dall’altra.

Va, innanzitutto, sottolineato come, anche nel caso di relazioni di cura che coinvolgono  minori, e, in generale, soggetti non in grado di esprimere la propria volontà, il tradizionale modello “paternalistico” improntato all’idea dell’attribuzione, in via esclusiva, ai curanti,  delle decisioni relative ai trattamenti sanitari, abbia lasciato il campo al diverso modello volto a garantire la duplicità dei soggetti coinvolti nel processo decisionale e, quindi, il coinvolgimento dei rappresentanti del minore. In questa prospettiva la comunicazione con chi rappresenta il minore diventa un elemento connotativo e imprescindibile di una buona relazione terapeutica, come, del resto, è avvenuto nel caso in esame, grazie all’aperto e franco rapporto dialogico che si è instaurato tra l’équipe curante e i genitori di A.

Si incorrerebbe, tuttavia, in un fraintendimento se si assimilasse la legittimazione morale, prima che giuridica, dei genitori (e in loro assenza del tutore) a decidere sui trattamenti, prestando o negando il consenso alla loro effettuazione, a un incondizionato potere di disporre della salute e della vita del minore. Al contrario, a muovere da una concezione  del minore come soggetto di diritti, della cui attuazione sono prima di tutto  i genitori a doversi fare carico, questi dovranno essere considerati investiti  della responsabilità di scelte compiute esclusivamente nell’interesse del minore stesso, con la forte implicazione che le decisioni nella loro disponibilità potranno essere solo quelle il cui scopo è la tutela della salute psicofisica e, in generale,  della qualità e della dignità della vita del minore.

Si incorrerebbe, inoltre, in un ulteriore grave fraintendimento se si riconoscesse a chi rappresenta il minore una prerogativa che l’etica e il diritto non riconoscono nemmeno al soggetto competente e in grado di manifestare la propria volontà sulle cure. La prerogativa in questione è quella di intervenire nella definizione degli interventi e dei trattamenti da considerare appropriati alle condizioni del paziente e, in quanto tali, meritevoli di essere proposti e attuati, e, comunque, di chiedere, con l’aspettativa di ottenere o mantenere, trattamenti da loro ritenuti idonei sulla base di personali convinzioni, ma valutati come inappropriati dai curanti sulla base di conoscenze supportate da evidenze e/o condivise in ambito clinico. 

Così facendo, si opererebbe una improponibile inversione dei ruoli, e non si darebbe il dovuto risalto alla valutazione dei curanti dalla quale, in qualunque situazione di malattia, a prescindere dalla capacità o incapacità del paziente, dipende l’individuazione dei trattamenti appropriati, così come la delineazione degli scenari prevedibili in relazione all’adozione di, o all’astensione da determinati trattamenti.

Posto che sono i curanti i soggetti ai quali va riconosciuta la prerogativa di delimitare il perimetro dell’appropriatezza delle cure, e non i pazienti e, a maggior ragione, non coloro che li rappresentano, si deve spostare l’attenzione sui criteri che consentono di qualificare i trattamenti come appropriati, distinguendoli da quelli inappropriati, che i curanti hanno il dovere morale, oltre che deontologico e giuridico di non attuare.  Nella definizione di tali criteri la riflessione bioetica, la deontologia e il diritto hanno concordemente dato evidenza a elementi   utili per affrontare il problema della “giusta misura” dei trattamenti, segnando il limite fino al quale, ma non oltre al quale curare, e, in generale, indicando le direzioni delle buone pratiche di cura.

Torna utile, a questo proposito, fare riferimento alla formulazione presente nell’art. 16 del Codice di deontologia medica, attualmente vigente, che, nel prescrivere al medico di non intraprendere, né insistere “in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati”, li identifica con quelli “dai quali non si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”. Lo stesso articolo specifica, peraltro, che “il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato” e sgombra, al tempo stesso, il campo dall’eventuale assimilazione dell’astensione da trattamenti non proporzionati a “un comportamento finalizzato a provocare la morte” del paziente. 

Ne discende che i parametri utili a definire l’inappropriatezza, che giustifica la non attivazione o la sospensione di un trattamento sulla base di una valutazione clinica, andranno ravvisati non solo nell’esiguità di guadagno, comportato dalla messa in atto e/o dal mantenimento del trattamento stesso, in termini di quantità di vita, ma anche nell’esiguità, o addirittura, completa assenza di guadagno comportato rispetto all’obiettivo di recare un apprezzabile beneficio e di migliorare la qualità della vita del paziente. Parametri, questi, ai quali va aggiunto quello dell’onerosità dei trattamenti, da intendersi senz’altro con prioritaria attenzione al malato, in termini di impatto negativo sulla sua condizione fisica e, se cosciente, psicologica, ma da valutare con riguardo anche al negativo impatto psicologico (ed esistenziale) per coloro che assistono il paziente. Riveste poi centrale rilievo nella definizione, non tanto dell’appropriatezza di uno specifico trattamento o intervento, ma dell’adeguatezza del percorso di cura complessivamente considerato,  l’individuazione  del “controllo efficace del dolore” e, quindi, della risposta alla sofferenza, come dovere, ancora una volta in senso morale, deontologico e giuridico, che  i curanti sono chiamati ad adempiere, facendo ricorso  anche alla sedazione palliativa profonda, in presenza di sofferenze che non possono essere alleviate con gli altri trattamenti disponibili.

Il ben definito quadro di criteri etici, deontologici e giuridici di riferimento, che emerge dalle precedenti considerazioni, consente, a questo punto, di tornare al caso in esame e di fornire ai proponenti la risposta al primo quesito formulato.

   Il Cef ritiene, innanzitutto, importante sottolineare come l’équipe curante abbia realizzato un percorso di cura apprezzabilmente improntato alla comunicazione e al dialogo con i genitori del bambino, con l’altrettanto apprezzabile obiettivo di pervenire a decisioni condivise nel miglior interesse del loro piccolo paziente.  Tale apertura al dialogo ha consentito, come è emerso dalla presentazione del caso, le condivisioni di specifiche scelte terapeutiche e ha reso possibile la convergenza sull’inopportunità, in considerazione del quadro clinico di estrema gravità e irreversibilità, di esami diagnostici o di nuovi interventi nell’ipotesi di ulteriore aggravamento.

Il dialogo non ha, tuttavia, evitato il manifestarsi di un contrasto di opinioni in merito ai trattamenti di sostegno vitale, già posti in essere, di cui i genitori ritengono inaccettabile la sospensione, a muovere dalla convinzione che nel bambino persista uno stato di “coscienza minima” che gli permetterebbe di mantenere ancora una residua relazione con loro e che renderebbe inaccettabile l’accelerazione del suo “naturale” tempo del morire. Si tratta di una convinzione, alimentata dal forte legame dei genitori con il bambino, e, in quanto tale da accogliere con rispetto, ma priva di evidenze cliniche, che non può, comunque, incidere sulla valutazione di appropriatezza del trattamento, che, come si è in precedenza osservato, spetta soltanto ai curanti formulare, sulla base di una rigorosa ricostruzione del quadro clinico e dell’impatto dei trattamenti sulla sua evoluzione. 

Alla luce degli elementi messi a disposizione del Comitato si può ritenere che, in considerazione delle condizioni in cui versa il bambino, la prospettata sospensione  dei trattamenti di sostegno vitale,  rappresenti  linea di azione eticamente giustificata, poiché tali trattamenti non appaiono in grado di apportare alcun miglioramento  nella qualità della vita di A., sia negli aspetti funzionali, sia in quelli relazionali, e, per contro, danno luogo a un prolungamento “artificiale” e non “naturale” del processo del morire, in relazione al quale  appare del tutto appropriato mettere in campo la nozione di “accanimento terapeutico”.  In conformità con il dovere  etico, deontologico e giuridico di operare per sollevare il malato dal dolore e dalla sofferenza, risulta altresì giustificata, anzi dovuta, la previsione del ricorso alla sedazione palliativa profonda, di cui, in presenza di discinesie che si possano interpretare come indicative di una sofferenza non  “sicuramente” controllata  attraverso i trattamenti sedo-analgesici già adottati, si dovrà prendere in considerazione la messa in atto anche in un momento anticipato, rispetto a quello in cui si procederà alla sospensione dei trattamenti di sostegno vitale. A questo proposito, il Comitato ritiene importante un approfondimento di riflessione, nel contesto dell’équipe, e nell’interlocuzione  con i genitori, volta a chiarire i criteri di appropriatezza per il ricorso alla sedazione palliativa profonda, e a fugare qualunque dubbio sulla sua assimilabilità  a un atto funzionale a provocare la morte.

Nel sottolineare che le sopra richiamate linee d’azione appaiono conformi a quanto stabilito, in via generale, dalla legge n. 219/2017 (e, in particolare, all’articolo 2), si può addurre, altresì, a ulteriore supporto della loro eticità, l’argomento che la loro adozione consente di non privare lo sfortunato bambino protagonista del caso di diritti di cui il Cef ha auspicato e richiesto il rispetto per ogni persona prossima alla fine della vita, quando ha redatto la Carta dei diritti dei morenti. Non solo il diritto al sollievo del dolore e della sofferenza e il diritto a non subire interventi che prolunghino il morire, ma anche il diritto alla vicinanza delle persone care e il diritto a non morire nell’isolamento e in solitudine.

Secondo quesito

“quali sono gli approcci attenti ai vissuti psicologici e alla dimensione emotiva dei genitori che l’équipe può portare ulteriormente alla famiglia con l’intento di far emergere le radici delle divergenti valutazioni relative all’interesse del minore, accertando se vi siano spazi per il loro superamento ed evitando contrapposizioni non vantaggiose per il bambino?”

   Dopo aver affrontato l’analisi del caso e averne proposto una valutazione nella prospettiva della  bioetica, della deontologia e del diritto, rivolgere attenzione, come richiesto dai proponenti, ai vissuti psicologici e al ruolo svolto dalla dimensione emotiva nel rifiuto, che genitori di A.  oppongono alla sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, proposta dai curanti e dal Cef valutata come eticamente appropriata, risulta  opportuno, al fine di realizzare una lettura di  bisogni dei genitori, non espressi (in quanto indicibili),  il cui  riconoscimento può consentire all’équipe di avvalersi di un ulteriore canale comunicativo, di carattere emotivo, appunto, oltre a quello nel quale si adducono argomenti razionali, con l’aspettativa non solo di preservare il rapporto dialogico tra curanti e genitori, ma anche di conseguire quella piena convergenza di posizioni che l’interesse del minore richiede.

  Va, d’altra parte, sottolineata la  valenza “etica” che l’attenzione rivolta anche alla sofferenza psicologica dei genitori riveste per coloro che  improntano l’assistenza  alla filosofia ispiratrice delle cure palliative come sintetizzata nella definizione (datane nel 2002 dall’OMS, e poi fatta oggetto di ampia condivisione),  nella quale le “famiglie” sono menzionate, accanto al malato, pur sempre in primo piano, tra i destinatari di un approccio di cura che non può trascurare gli aspetti psicosociali e spirituali. E questo vale, in particolare, quando vi siano soggetti che, come i genitori di A., rientrano nella categoria di persone fragili e vulnerabili, esposte al rischio di un lutto “complicato” e dai possibili pesanti effetti sulla loro salute psico-fisica.

     Dalla lettura del caso in questa prospettiva emergono significativi fattori di rischio.                       In primo luogo,  quello legato alla circostanza di una morte dopo una lunga malattia/disabilità.  Una malattia cronica, se pur progressivamente invalidante,  come quella che ha colpito  il bambino al centro del caso, può spingere i genitori a crearsi l’idea di possibile e perpetua “sopravvivenza”.  In altre parole, può ingenerare la convinzione che i presidi biomedici e tecnologici grazie ai quali sono state via via fronteggiate tante complicanze possano continuare a far superare anche nuove situazioni critiche. Insomma, un “se ce l’abbiamo fatta tante volte, continueremo a farcela”, che determina una speranza irrealistica-onnipotente, ed una situazione di stress continuo, facendo perdere di vista le trasformazioni di scenario, come quella  avvenuta nell’evoluzione purtroppo negativa della condizione di A.

   A ciò si aggiunge che, in questo caso, la morte è quella di un figlio: un lutto complicato per definizione, un’interruzione di vita complessa e innaturale, che può anche passare attraverso la descrizione sottesa o esplicitata di una morte dovuta a trascuratezza, inadempienza “non abbiamo fatto tutto il possibile”, oppure da premeditazione “siamo noi la causa”, che determina vissuti di collera, colpa o ruminazioni ideative.

    La morte di un figlio comporta sempre la perdita di una relazione di attaccamento e  dell’investimento in lui riposto, e questo  interferisce con l’integrazione cognitiva dell’esperienza, riducendo la capacità di adattamento.  Nel caso, poi,  della  morte di un figlio “disabile dalla nascita”, la perdita riguarda  un attaccamento di carattere “protettivo” e  salvifico, al quale è, peraltro, sotteso un lutto cronico per la morte del “figlio ideale”, con un sovrainvestimento di vita da parte dei genitori su questo bimbo.  In una vita al fianco di un figlio “impegnativo”, nella quale  la quotidianità potrebbe, come già si è osservato,  essere costellata da sensi di colpa, la forza dell’attaccamento è, per un verso,  determinata dall’amore per il figlio, ma, per altro verso, comprende anche l’ambivalenza di sentimenti umanamente contrastanti, postivi e negativi, all’interno di una vita “sacrificata”, con stanchezza ed esaurimento psico – fisico.  Aiutare a riconoscere ed esplicitare questi sentimenti contrastanti, illuminare le zone “d’ombra”, portare allo scoperto i “mostri” interiori,  potrebbe aiutare i genitori in un percorso che li legittimi e sollevi anche dai sensi di colpa per la presenza sentimenti vissuti come pesantemente negativi.

    Nel percorso di analisi realizzato utilizzando il canale comunicativo in grado di  far emergere e di valorizzare la dimensione emozionale, non si può eludere la domanda relativa a quale sia la  parte di quel genitore muore insieme al bimbo. 

   Identificare quale parte  del progetto di vita dei genitori è aggrappata all’esistenza di questo bimbo, che peso abbia per loro e che cosa significhi perdere il ruolo di mamma e di papà, può aiutarli a riflettere sul legame (non razionalmente riconosciuto e riconoscibile) che esiste tra la paura di smarrire la propria identità e la persistente riluttanza a “lasciar andare” il bambino, così come la ri-narrazione della storia di relazione con il proprio figlio, della storia di malattia,  può diventare strumento utile per  aiutarli a  prefigurare un percorso di vita  con una rinnovata identità.

   Va, d’altra parte, considerato che i genitori  hanno già iniziato un percorso di accettazione della morte, maturando la consapevolezza di una fine destinata a sopravvenire entro breve tempo. Inoltre, pur ritenendo inaccettabile la decisione che accelererebbe la fine alla relazione affettiva che, nonostante le sue condizioni,  il bambino manterrebbe ancora con loro, essi si sono, di fatto, già preparati  all’interruzione di quella relazione, e, dopo tanti anni  di accudimento e di vicinanza fisica,  hanno accettato di distanziarsi dal bambino, prevedendo che sia una struttura sanitaria e non la sua casa il luogo in cui  concluderà la sua  esistenza.

Pur in presenza di una decisione che si può già ritenere, se pur non ancora del tutto consapevolmente, “dentro” i genitori,  il blocco da sciogliere riguarda “il come e il quando deve morire il loro figlio” e il significato che ai loro occhi assume il differimento nel tempo e l’assoggettamento a una “nuova “ condizione (un evento acuto) di un evento che sanno ineluttabile.

   Sarà importante aiutarli a capire quanto rilevante sia il ruolo che, a fronte della loro dolorosa esperienza di vita,  viene svolto dall’interiorizzazione di emozioni negative (“il mondo non è un luogo sicuro né ha un significato altro da mio figlio e non ho un sé meritevole e degno che possa sopravvivere alla sua morte”), e aiutarli a superare quelle emozioni.

A conclusione delle precedenti  considerazioni,  il Cef suggerisce all’équipe proponente di improntare  i piani di cura  ai criteri emergenti dall’analisi bioetica realizzata in questo parere, nonché di adottare, a supporto psicologico dei genitori, linee di azione che si possono riassumere nelle seguenti sintetiche formule:

  1. aiutare i genitori a riconoscere il processo di un lutto già in atto, la presenza di un figlio “già morto”
  2. collocare con delicatezza gli “indicibili” in un’area protetta di esplorazione
  3. supportare l’espressione delle emozioni, legittimandole e non negandole, ma  esplorandole in profondità
  4. accompagnare i genitori nell’area futura dell’assenza del figlio, favorendo il pensiero di vita “senza il figlio”
  5. accogliere l’insensatezza della perdita per ciascuno di loro, all’interno di una ricerca di senso possibile
  6. fornire il tempo e lo spazio utili
  7.  tener conto delle differenze individuali tra i due genitori
  8. osservare gli stili di difesa e di adattamento di entrambi