QUANDO UN SINTOMO SI PUÒ CONSIDERARE REFRATTARIO?

Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione del CEF riguarda un’anziana paziente 90enne, affetta da lesione ulcerata parauricolare-parotide destra ( “lesione” è, probabilmente, sinonimo di neoplasia). La paziente, portatrice di catetere vescicale, è allettata a causa degli esiti di una frattura al femore destro. L’anziana signora è lucida, orientata nel tempo e nello spazio, ed ancora in grado di alimentarsi autonomamente. Per quello che riguarda invece l’igiene personale e la capacità di vestirsi, la paziente dipende totalmente dagli altri. È affetta da depressione reattiva di grado lieve, legata alla deturpazione causata dalla lesione. Anche se la paziente appare scarsamente consapevole della diagnosi e della prognosi, il pensiero appare concentrato sulla lesione e sulla mancata guarigione. A causa di questa scarsa consapevolezza ed anche dell’età avanzata, la paziente non sembra essere in grado di partecipare attivamente alle decisioni terapeutiche che la riguardano.Un membro dell’equipe curante ha proposto un intervento di sedazione palliativa, giustificandola con la situazione di distress psicologico della paziente. All’interno dell’equipe si è sviluppato un intenso confronto, determinato dalle molte perplessità sollevate circa l’appropriatezza della valutazione di distress psicologico (valutazione effettuata da un solo componente dell’equipe), nonché dalla legittimità di considerare il distress psicologico alla stregua di un sintomo refrattario.

I quesiti

  1. E’ necessario svolgere gruppi di lavoro dedicati alla valutazione dei sintomi refrattari dei pazienti presenti in Hospice per identificare quali lo siano veramente?
  2. E’ utile organizzare confronti interni all’ equipe che abbiano lo scopo di definire cosa sia veramente un sintomo refrattario?
  3. Come aiutare l’operatore “ malato di eccesso di zelo”?

Il parere
Prima di rispondere ai quesiti proposti, è opportuno sottolineare come la discussione etico/clinica sviluppatasi all’interno dell’equipe appaia del tutto autoreferenziale a chi non conosce alcuni elementi che sono essenziali. Infatti: 1) Non si sa chi, oltre all’equipe dei curanti, si occupa dell’anziana paziente e, eventualmente, cosa ne pensano i care-givers circa l’opportunità di informare la paziente sul suo stato reale; 2) La paziente viene definita come scarsamente attiva circa il proprio destino terapeutico a causa della scarsa consapevolezza e dell’età avanzata. L’essere in “età non avanzata” (qualunque cosa voglia dire) non pare essere uno dei requisiti indispensabili alla consapevolezza, considerato anche che la paziente in questione è lucida ed orientata nel tempo e nello spazio. Sarebbe interessante conoscere in base a quali elementi l’equipe è giunta a questa conclusione; 3) Non sono evidenziate le varie posizioni “etiche” all’interno dell’equipe; 4) Non è chiaro come una “lieve depressione” si sia tramutata per un operatore in un insostenibile distress psicologico; 5) Non si conosce la prognosi della paziente (anche se, essendo ricoverata in hospice, la signora è presumibilmente prossima al decesso; 6) Non è chiaro, infine, a cosa sia da addebitare la mancata informazione della paziente e quindi la sua scarsa consapevolezza. Per quanto riguarda i quesiti proposti, si ritiene che: Il primo ed il secondo quesito possano sostanzialmente tradursi in questo modo: “Quando è possibile definire “refrattario” un sintomo? Ed è utile o controproducente che sia l’equipe, composta da varie soggettività, a decidere questa definizione?” Le varie definizioni di “refrattario” che è possibile reperire, riconducono tutte al concetto di “resistente a stimoli orientati al cambiamento”, non dovrebbe essere quindi molto difficile (tranne che in particolari situazioni in cui le oscillazioni di stato rendono problematico attribuire il cambiamento allo stimolo indotto) arrivare, unanimemente, a definire un sintomo come refrattario. Ma si ritiene che i quesiti posti, ne nascondano un altro ben più complesso: “Quando un sintomo refrattario è tanto grave da giustificare, o esigere, una sedazione palliativa?” A questo, che è probabilmente il vero quesito posto, la risposta non può che essere che la decisione deve essere presa dall’equipe (dopo un confronto interno) e dopo aver valutato tutte le implicazioni del caso, comprese, naturalmente e prima di tutto, lo stato del paziente, la sua consapevolezza, la sua autodeterminazione, i suoi rapporti affettivi e sociali. Solo dopo questa valutazione sarà possibile decidere se proporre la sedazione palliativa, una volta che l’equipe la abbia giudicata appropriata. Un altro quesito, non esplicitato ma evidente “tra le righe”, è “il distress psicologico può essere considerato un sintomo refrattario?”. La risposta è che esso, se veramente è refrattario (ma si stenta a pensare che una lieve depressione reattiva non risponda al trattamento farmacologico), va valutato come ogni altro sintomo: quanto è grave e quanto è in grado di compromettere irrimediabilmente la qualità di vita del paziente. Per quanto riguarda l’aiuto ed il sostegno che è possibile dare all’operatore “malato di eccesso di zelo”, non si ritiene che esso sia un quesito di ordine etico.