CHI È ACCANTO AL MORENTE PUÒ DECIDERE PER LUI?

Il caso
A Giuseppe, 26 anni, studente universitario, di religione cattolica, viene diagnosticato, 14 mesi prima dell’evento di cui al caso, un glioblastoma, biologicamente maligno, di grado severo a interessamento troncoencefalico. Sottoposto a intervento chirurgico di alleggerimento con posizionamento di drenaggio endoperitoneale per impossibilità di una exeresi totale, data la localizzazione e l’invalidamento che la procedura chirurgica avrebbe potuto determinare e chemioterapia, poi interrotta per tossicità ematologica. A distanza di un anno dalla diagnosi le condizioni cliniche sono precipitate per aumento della compressione neoplastica sul tronco encefalico, documentata di agnosticamente, con paresi facciale, difficoltà alla deglutizione, diplopia, emiparesi sinistra, fascicolazioni all’emisoma destro e difficoltà respiratorie. Il paziente risulta consapevole della diagnosi e probabilmente anche della prognosi. A seguito di una severa crisi convulsiva, sopraggiunta verosimilmente per ipossia, il paziente viene ricoverato in rianimazione per una giornata e successivamente trasferito nel reparto di oncologia. Superata la crisi acuta il paziente, in precarie condizioni, manifestava la volontà di ritornare a casa. Al momento dell’intervento dell’équipe (medici palliativisti, infermiere e psicologa dell’assistenza domiciliare) che richiede ora il parere, il paziente si presentava sonnolente, ma, nei momenti di lucidità, ripeteva di non volere tornare in ospedale, avendo lui stesso preso decisione di essere dimesso. Il paziente rispondeva appropriatamente a tutti gli stimoli verbali e manifestava buona compliance alla terapia domiciliare. Era stato attivato un supporto psicologico per la madre. A giudizio dell’équipe si era stabilito un buon grado di empatia col paziente e una ottima collaborazione pratica con la madre, che fungeva da care giver, e il padre e la sorella più grande. L’équipe concorda, insieme al resto della famiglia e seguendo la volontà del paziente che, se si fosse presentata un’ulteriore crisi, sarebbe stata gestita a casa, verosimilmente con una sedazione terminale. A distanza di 22 giorni dal rientro a casa, si ripresenta un secondo episodio critico, sovrapponibile al primo. A differenza di quanto concordato in precedenza, la madre, al momento dell’episodio, allerta il 118, insistendo per il ricovero. Il paziente, dopo due giorni, muore presso il proprio domicilio sedato farmacologicamente.

Il quesito
Si chiede se sia stato corretto gestire, nel rispetto di quanto chiesto dal paziente all’èquipe, la crisi a domicilio con la sedazione farmacologia o se non sarebbe stato più giusto ricoverarlo nuovamente, come chiedeva la madre, dato il tempo intercorso tra la prima e la seconda crisi.

Il parere
Il comportamento dell’équipe appare del tutto corretto, in applicazione del principio di autonomia del malato. La scelta dell’équipe, infatti, risponde a un percorso concordato col paziente in vista di un’ipotesi di evento corrispondente a quanto effettivamente verificatosi, un percorso concordato con un paziente consapevole della diagnosi e verosimilmente della prognosi e lucido e capace nel momento in cui ha manifestato la sua volontà. Il comportamento dell’èquipe appare non soltanto corretto, ma lodevole, nel senso che, nel rispetto dell’autonomia del paziente, ha saputo: a) instaurare una buona relazione di fiducia col malato; b) concordare col malato una linea di trattamento che lascia intendere con sicurezza un’informazione corretta e senza veli, tale da condurre a scelte consapevoli e condivise; c) dare esecuzione alla linea di trattamento concordata, quando si è verificata, sia pure dopo un peraltro non lungo lasso di tempo, la situazione prevista, nel rispetto delle scelte del malato stesso. Il comportamento dell’équipe merita un giudizio favorevole anche sotto un altro profilo. A stare alla narrazione del caso, l’unico dubbio riguarderebbe la richiesta della madre che, già d’accordo con la linea di trattamento concordata, ha poi manifestato una contraria volontà, richiedendo un ricovero che l’équipe non ha accettato di effettuare. Il parente del malato, per quanto stretto sia il grado, non ha titolo per sovrapporre e tanto meno per far prevalere la sua volontà rispetto a quella manifestata del malato, oltretutto in modo lucido e consapevole. La risposta dell’équipe, di attivare un supporto psicologico per la madre, appare particolarmente apprezzabile, nel quadro della prospettiva di una medicina globale che sappia tener conto non soltanto del malato e della malattia, ma anche delle conseguenze che quest’ultima può provocare, non solamente sul paziente, ma anche nella sfera delle sue relazioni affettive e sociali.